Dante e il VI libro dell’ Eneide-Italiano- Esempio di saggio breve –

 

 

Ispirazioni dantesche

La Divina Commedia è l’opera più famosa e più importante che abbia scritto Dante. Essa è stata scritta intorno al 1307, periodo in cui, secondo la visione apocalittica di Dante, la società era corrotta, sia moralmente sia spiritualmente. In questo contesto Dante si sente investito da Dio, da una missione in cui deve portare alla salvezza tutta l’ umanità, poiché questa ha perso la “dritta via”. Essendo la Commedia un poema sacro, Dante ha attinto innanzitutto dalle Sacre Scritture, in primo luogo, la concezione di visione, di sogno notturno in cui avviene l’apparizione di Dio, ripresa dal libro di Giobbe (33,15-18), in cui Dio parla nel sogno e con apparizioni spaventa gli uomini per distoglierli dal male e salvarli dalla morte violenta. Questa salvezza dell’anima può avvenire soltanto facendo un viaggio, passando per i tre regni oltremondani, in cui, in primo luogo, avviene la conoscenza dei peccati (Inferno), quindi la via della purificazione (Purgatorio) ed, infine, la contemplazione di Dio (Paradiso). La parte iniziale, in cui Dante si perde in una selva oscura, viene ripresa da Brunetto latini, dalle sue opere didascaliche “Tresor”e “Tesoretto”, in cui il protagonista si perde in una “selva diversa” . Quando Dante stava per salire su un monte illuminato, gli apparvero tre fiere: una lonza, un leone, una lupa; proprio come nel Corano, in cui un lupo ed un leone sbarrano la strada al pellegrino (da ciò alcuni critici hanno dedotto che l’autore abbia ripreso non solo da testi appartenenti alla religione cristiana, ma anche a quella musulmano-islamica). L’immagine dell’oltretomba non solo è stata rielaborata da scritti dell’ epoca, ma è premedievale, poiché anche l’Antico Testamento descrive l’oltretomba come un luogo sotterraneo in cui al di sopra del cielo visibile e delle acque superiori c’è il paradiso celeste. Anche San Brandano, nella “Navigatio”, descrive l’Aldilà come un viaggio, guidati da Dio o verso l’isola dei beati o verso la via per il Tartaro. Il viaggio di purificazione inizia con l’ Inferno, la cui facile entrata, descritta anche da Giacomino da Verona, si trova a Gerusalemme, un luogo oscuro pieno di sofferenza e senza speranza. La strutturazione è ad imbuto, formato da diversi gironi, quelli più ampi sono verso la superficie, in cui la pena, essendo rapportata al peccato, è più lieve; quelli più stretti si trovano in fondo, dove è incastrato Lucifero, l’angelo caduto dal cielo, in cui le pene sono sempre più dolorose e i peccati più gravi. Questa strutturazione è esemplata su quella dell’Inferno musulmano, poiché ambedue sono un gigantesco imbuto formato da una serie di piani e di scale circolari che menano al centro della terra e sono entrambi situati sotto la città di Gerusalemme. L’Inferno è stato anche ripreso da autori medievali del tempo come Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva, che lo considerano un luogo di fetore, demoni, e pene del ghiaccio e del fuoco. Ma la più importante fonte da cui ha attinto Dante è l’Eneide di Virgilio, precisamente il VI canto. Innanzitutto vi è l’invocazione: come Enea, prima del viaggio, per scoprire le sorti della sua stirpe, invoca gli dèi, Dante invoca le muse e l’alto ingegno, così che la memoria possa dar prova delle sue capacità. Inoltre ci sono anche luoghi simili come il vestibolo o il fiume Acheronte. Ma un’ influenza maggiore è quella dei personaggi, come Caronte, custode e nocchiero che si trova alle porte dell’ Inferno, che trasporta le anime, un vecchio dalla barba bianca e dagli occhi di brace, che in Dante batte le anime con il remo per farle salire sulla barca. A questo punto troviamo una comune similitudine: le anime che si raccolgono sulla riva come le foglie d’autunno che cadono e si posano sulla terra. Un altro personaggio è Cerbero, che in Dante si trova nel VI canto, nel cerchio dei golosi, mostro con tre bocche, che “’ntrona e latra, iscoia ed isquatra” le anime dei golosi, proprio come nell’ “Eneide”, con una leggera differenza: per azzittirlo Virgilio, nella “Divina commedia” gli getta del fango nelle sue bocche, mentre la Sibilla, nell’ Eneide, gli dà una focaccia soporifera. Un altro personaggio è Minosse, che si trova nel V canto dell’Inferno, nel cerchio dei lussuriosi, è l’inquisitore infernale che in ambedue le opere apprende le colpe delle anime e, avvinghiando con la lunga coda, determina la posizione in cui l’ anima dovrà collocarsi. I due personaggi protagonisti hanno in comune una guida: per Dante si tratta di Virgilio, per Enea abbiamo la Sibilla. Dante ha ripreso anche da Cicerone, dal “Somnium Scipionis”, l’ espediente della preveggenza: come Cicerone immagina che Scipione l’ Emiliano faccia un sogno in cui il nonno adottivo, Scipione l’Africano, gli parla del proprio futuro e di quello dello Stato, così Dante si fa predire da Ciacco il futuro di Firenze, nel VI canto. Per quanto riguarda il Purgatorio, alcuni tratti sono ripresi dall’Odissea: nell’XI libro, Odisseo per tre volte vorrebbe abbracciare la madre, ma non ci riesce, poiché è solo anima e non corpo; così Dante, nel II canto del Purgatorio, vorrebbe abbracciare il suo amico Casella, ma non strige nulla. Infine abbiamo l’ultima tappa del viaggio, il Paradiso, in cui le anime sono disposte in base all’intensità di beatitudine, a differenza dell’Inferno e del Purgatorio in cui sono disposte in base alla legge del contrappasso, una regola per cui la pena riflette la colpa, o per analogia o per contrasto. Qui Dante non attinge soltanto dalla Bibbia o dagli scrittori medievali, che lo descrivono come luogo di piacere, cibo, bevande, ma anche dal Corano, in cui il Paradiso è il luogo di delizie e in cui si continua ad avere una vita attiva , anche se non c’è la contemplazione di Dio.

La Commedia è l’opera più studiata, anche perché ci sono dei lati ancora nascosti, soprattutto in riguardo alla interpretazione di alcuni versi, come per esempio nel I canto dell’ Inferno, quando si parla dell’ arrivo di un Veltro che eliminerà i peccati, rinviandoli a Lucifero, riferimenti che troviamo nell’ Apocalisse di Giovanni (19,11-16) ; oppure quando, nel VII canto dell’Inferno, vi è l’ espressione “Pape Satan”: per il significato si pensa anche alle assonanze con la pronuncia araba che porterebbero alla seguente interpretazione: é la porta di Satana. Per questo la Commedia è una continua ricerca, poiché ogni volta ci sono elementi nuovi e considerazioni in riguardo, essendo un poema che racchiude numerose culture.

 

I.S.

 

 

Virgilio

Eneide

Libro sesto


vv. 1-13

Cuma e il tempio di Apollo

Così dice, lacrimando, e allenta le briglie [1] alla flotta e finalmente approda alle spiagge Euboiche [2] di Cuma [3]. Girano le prore verso il mare; allora con dente tenace l’àncora teneva ferme le navi e le curve poppe coprono i lidi. Una schiera di giovani ardente balza sul lido Esperio; parte cerca i semi della fiamma nascosti nelle vene della selce, parte percorre le selve, folti rifugi di fiere e segnala i fiumi trovati. Il pio Enea si avvia verso la rocca [4], che l’alto Apollo [5] protegge, e lontano verso i luoghi segreti, antro smisurato, dell’orrenda Sibilla, cui il vate Delio [6] infonde la sua grande conoscenza e la sua volontà e svela il futuro.

vv. 14-33

Dedalo e le porte del tempio

Dedalo [7], come è noto, fuggendo dal regno Minoico [8], su penne veloci osò affidarsi al cielo, e per l’insolito cammino volò fino alle gelide Orse e leggero infine si fermò sulla rocca calcidica. E qui, appena toccata la terra, a te, o Febo, consacrò le ali ed eresse un tempio immane. Sulle porte era raffigurata la morte di Androgeo [9], quindi i Cecropidi [10] obbligati – miserando tributo – a dare come pena ogni anno sette corpi di figli e sta raffigurata l’urna da cui si estraevano le sorti. Di contro compare la terra di Cnosso elevata sul mare: qui vi è il crudele amore del toro e Pasifae posta sotto al toro con un’astuzia [11] e il Minotauro [12], razza mescolata e prole biforme, segno di un amore scellerato [13]; qui la casa, opera famosa [14] col suo inestricabile errare; ma in verità lo stesso Dedalo, preso da pietà per il grande amore della regina [15] sciolse l’inganno dei giri e rigiri nel Labirinto guidando con un filo i ciechi passi [16]. Tu pure, o Icaro [17], avresti una parte importante in questo grande lavoro, se lo permettesse il dolore. Due volte aveva tentato di raffigurare l’evento [18] nell’oro, due volte caddero le paterne mani.

vv. 33-41

davanti all’antro della Sibilla

Certo cogli occhi avrebbero esaminato immediatamente ogni cosa se già Acate, mandato innanzi, non fosse tornato ed insieme a lui Deifobe [19] figlia di Glauco, sacerdotessa di Febo e di Diana Trivia [20], che tali cose dice al re:

– Il tempo presente non richiede per sé questi spettacoli; ora sarà meglio immolare sette giovenchi di un’intatta mandria e altrettante pecore di due anni scelte secondo il rito.

Dopo aver detto queste cose ad Enea, – né gli uomini si attardano davanti ai sacri ordini, – la sacerdotessa chiama i Teucri nell’alto tempio.

vv. 42-53

la Sibilla invasata

L’immenso fianco della rupe Euboica s’apre in un antro, dove si può entrare per cento larghi accessi, per cento porte, donde erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla. Erano giunti all’ingresso, quando la vergine disse:

– È tempo di chiedere i Fati: il dio, ecco il dio!

E a lei che così parlava, si tramutarono all’improvviso il volto e il colore e le composte chiome; il petto è ansante e il cuore selvaggio si gonfia di furore e sembra più grande e non ha voce mortale, perché ispirata dalla volontà ormai vicina dio. E Disse:

– Indugi nei voti e nelle preghiere, Troiano Enea? Indugi? Né si apriranno prima le grandi porte dalla casa invasata dal dio.

vv. 53-76

preghiera di Enea ad Apollo

promessa: costruire un tempio e istituire feste in onore di Apollo

E dette queste parole, tace. Un gelido timore corre per le dure ossa dei Teucri e il re effonde preghiere dal profondo petto:

– O Febo, che hai sempre avuto pietà dei gravi affanni di Troia e hai diretto le armi Dardane e la mano di Paride contro il corpo dell’Eacide [21] e sotto la tua guida penetrai in tanti mari che circondano vaste terre e fra le genti dei Massili, cacciate in profondità lontano dalle coste e nei campi distesi dinanzi alle Sirti, finalmente ora teniamo le spiagge della sfuggente Italia; che solo fin qui ci abbia seguito la malasorte Troiana! Voi pure ormai è giusto che risparmiate la gente Pergamea [22], DEI e DEE, tutti, ai quali si oppose Ilio e la grande gloria della Dardania. E tu, o santissima Sibilla, presaga dell’avvenire, concedi, – non chiedo regni non dovuti dai miei Fati, – che i Teucri e gli erranti DEI Penati e i travagliati DEI di Troia si stanzino nel Lazio. Allora innalzerò a Febo e a Trivia un tempio [23] di solido marmo e giorni di festa [24] dal nome di Febo. Anche te grandi penetrali attendono nel nostro regno: qui, infatti, io conserverò i tuoi responsi e gli arcani destini, predetti al mio popolo e consacrerò, o divina, uomini eletti. Solo: non affidare i tuoi responsi alle foglie [25], affinché confusi non volino nel gioco dei venti: ti prego di svelarli colla tua stessa voce.

E pose fine con la bocca al parlare.

vv. 77-97

il responso della Sibilla

parallelismo tra: la guerra Troiana e la guerra che Enea dovrà sostenere nel Lazio;

nozze straniere

Ma non ancora in stato di esaltazione [26] per opera di Febo, gigantesca nell’antro la veggente infuria come una Baccante nel tentativo di scacciare dal petto il grande dio, tanto più Apollo tormenta la bocca rabbiosa, domando l’indomito cuore, e docile la rende stringendola con forza. E già le cento grandi porte dell’antro si spalancano da sole e portano per l’aria i responsi della veggente:

– O scampato finalmente ai grandi pericoli del mare, – ma restano quelli più gravi di terra, – nel regno di Lavinio giungeranno i Dardanidi, allontana questo affanno dal petto, ma vorranno non esservi giunti. Guerre, orride guerre vedo e il Tevere spumeggiante di molto sangue. Non il Simoenta né lo Xanto né gli accampamenti dorici [27] ti mancheranno: già un altro Achille [28] è stato partorito per il Lazio, anch’egli nato da una dea; né mai mancherà Giunone, ostile ai Teucri; e allora tu, supplice, quali genti italiche e quali città non avrai mai pregato! Causa di tanto male di nuovo una moglie [29] straniera per i Teucri e per la seconda volta nozze straniere [30]. Tu non cedere ai mali, ma affrontali più audace di quanto ti permetta la sorte. La prima via di salvezza, cosa che non crederesti minimamente, ti sarà aperta da una città greca [31].

vv. 98-123

Enea chiede alla Sibilla di poter scendere nel Tartaro per vedere il padre

Con tali parole la Sibilla di Cuma dai penetrali annunzia orrende parole velate e rimbomba nell’antro, avvolgendo il vero con l’oscuro: tali redini [32] Apollo scuote sulla furente Sibilla e le conficca sproni nel petto . Appena cessato il furore e la rabbiosa bocca rimane quieta, l’eroe Enea comincia:

– O vergine, nessuna specie di travagli mi si presenta nuova o inaspettata; tutto ho provato e considerato nell’animo, tra me. Una cosa sola ti prego: poiché si dice che qui si trovino la porta del re dell’inferno e la tenebrosa palude formata dal rigurgito dell’Acheronte [33], che io possa andare alla presenza dell’anima dell’amato genitore; insegnami la via ed aprimi le sacre porte [34]. Io lo portai su queste spalle attraverso le fiamme e mille dardi che c’inseguivano e lo salvai dalle mani nemiche; egli accompagnandomi nel viaggio, ha sopportato con me tutti i mari e tutte le minacce del mare e del cielo, invalido, oltre le sue forze e la sorte della vecchiaia. Egli stesso, anzi, pregando mi dava ordine che io supplice venissi da te e mi recassi alle tue soglie. O divina, ti supplico, abbi pietà del figlio e del padre; tu puoi, infatti, ogni cosa né Ecate [35] ti prepose invano ai boschi dell’Averno: se Orfeo [36] poté evocare l’ombra della sposa fidando nella tracia cetra e nelle corde canore, se Polluce [37] riscattò il fratello coll’alterna morte e va e torna tante volte per quella via. Perché ricordare Teseo [38]? Perché il grande Alcide [39]? anch’io discendo dal sommo Giove [40].

vv. 124-155

la Sibilla acconsente

Cocito

palude Stigia

 

ricerca dell’aureo ramo consacrato a Giunone infera

invita a seppellire il compagno Miseno

Con tali parole pregava e abbracciava gli altari, quando così la veggente cominciò a parlare:

– O generato dal sangue degli DEI, Troiano figlio di Anchise, facile è la discesa nell’Averno: notte e giorno è aperta la porta dell’oscura Dite [41], ma ritrarre il passo ed uscire all’aria superna, questo è il problema, qui sta l’impresa. Pochi, nati da DEI, che il benigno Giove amò o il sublime valore sollevò al cielo poterono. Selve occupano tutto il centro e Cocito [42] le circonda con oscure sinuosità. Poiché se tanto amore e così grande desiderio si trova nel tuo animo di solcare due volte la palude Stigia [43] e vedere due volte il nero Tartaro [44] e ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale [45], è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito [46]; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro [47]. Inoltre il corpo di un tuo amico giace privo di vita, – ohimé tu lo ignori, – e contamina col cadavere insepolto la flotta, mentre implori responsi e ti trattieni sulla nostra soglia. Riportalo prima nella sua estrema dimora e componilo nel sepolcro. Conduci nere pecore [48], e siano queste le prime offerte, così vedrai alfine i boschi dello Stige e i regni inaccessibili ai vivi.

Disse, e, chiusa la bocca, tacque.

vv. 156-174

la storia della morte di Miseno ad opera di Tritone

Enea, lasciando l’antro, cammina cogli occhi fissi a terra e lo sguardo triste e medita tra sé sugli oscuri eventi. Va con lui Acate, compagno fidato, e muove lenti passi con uguali affanni. Di molte cose discorrevano tra loro e con opinioni diverse, di quale compagno estinto e quale corpo da seppellire parlasse la veggente. Ed ecco che essi, non appena giunsero sull’asciutto lido, vedono Miseno figlio di Eolo [49], strappato da un’indegna morte [50], del quale nessuno era più capace di eccitare i soldati con la tromba e infiammare col suono la battaglia. Costui era stato compagno del grande Ettore, al fianco di Ettore affrontava le battaglie, famoso sia per la sua tromba [51] che per la capacità nel maneggiare l’asta. Ma dopo che Ettore fu spogliato della vita dal vincitore Achille, il fortissimo eroe si aggiunse come compagno al Dardano Enea, seguendo imprese non inferiori. Ma allora per caso, mentre con la cava conchiglia fa risuonare i mari, e, stolto, chiama gli dei a gareggiare col canto, il rivale Tritone [52], se è giusto credere, aveva sommerso nell’onda spumeggiante tra i sassi quel guerriero preso alla sprovvista.

vv. 175-189

Funerale di Miseno

Per questo tutti si lamentavano intorno con alte grida, specialmente il pio Enea. Allora piangenti s’affrettano ad eseguire senza indugio gli ordini della Sibilla, e gareggiano nel costruire con tronchi l’ara del sepolcro e innalzarla al cielo. Si va in una selva antica, nascosta dimora di fiere, s’abbattono i pioppi, risuona il leccio percosso dalle scuri e i tronchi del frassino e si spacca coi cunei la quercia [53] fendibile e immensi orni [54] rotolano dai monti. Anche Enea, primo fra tali opere, esorta i compagni e lavora con i loro stessi attrezzi. E col suo cuore afflitto pensa queste cose, guardando l’immensa selva e forse così prega:

– Oh! Se si mostrasse ora quel ramo d’oro da un albero in questo sconfinato bosco, dal momento che la veggente, ahimé, ha detto di te cose purtroppo vere.

vv. 190-211

Ritrovamento del ramo d’oro

similitudine

Aveva appena pronunciato queste parole che per caso due colombe volando sopraggiunsero dal cielo sotto lo sguardo di Enea e si posarono sul verde suolo. Allora il grande eroe riconobbe gli uccelli [55] cari alla madre e lieto prega:

– Siate le mie guide, se c’è un qualche sentiero e per l’aria dirigete il volo nei boschi, dove l’aureo ramo ombreggia la pingue terra. E tu, o madre divina, non abbandonarmi in questa incerta impresa.

Detto così, fermò i passi osservando quali indizi offrano, per dove continuino a dirigersi. Pascendosi le colombe volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Quindi, quando giunsero all’ingresso del maleodorante Averno, veloci si levano in volo e discese per l’aria limpida, si posano nel luogo desiderato sull’albero dalla doppia natura [56], da cui rifulse pei rami lo scintillio dell’oro. Come il vischio, che si riproduce su un albero, suole nel freddo invernale verdeggiare di fronda novella nei boschi, e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l’aspetto dell’oro frondoso sull’elce ombroso, così la sottile foglia d’oro tintinnava al vento leggero. Subito Enea afferra ed avido strappa il ramo che resiste e lo porta alla dimora della veggente Sibilla.

vv. 212-235

il funerale di Miseno

(continua)

Frattanto i Teucri sulla spiaggia piangevano Miseno e rendevano gli estremi onori alle fredde ceneri. Per prima cosa innalzano una grande pira grassa per i pini resinosi e con quercia tagliata, rivestendone i fianchi di scure fronde e davanti collocano funerei cipressi e sopra lo adornano di armi fulgenti. Alcuni preparano calde acque e bronzei vasi bollenti sulle fiamme, lavano e ungono il freddo corpo. Cresce il lamento. Allora depongono sul feretro il corpo compianto e vi gettano sopra purpuree vesti e gli abiti suoi consueti. Parte s’avvicina alla grande pira, – triste compito, – e volti all’indietro secondo l’usanza degli avi, sotto vi tengono ferma una fiaccola ardente. Si bruciano i doni raccolti d’incenso, le carni, i vasi d’olio versatovi sopra. Dopo che le ceneri caddero e s’acquietò la fiamma, con vino aspersero i resti e le ceneri assorbenti e Corineo racchiuse le ossa raccolte in un’urna di bronzo. Egli stesso tre volte girò tra i compagni con acqua lustrale, spruzzandoli con stille leggere ed un ramo fecondo d’ulivo, purificò gli uomini e pronunciò l’estremo saluto. E il pio Enea innalza sulle ceneri un sepolcro d’immensa mole e le sue armi e il remo e la tromba sotto un monte elevato che ora da lui viene chiamato Miseno e nei secoli eterno il nome mantiene.

vv. 236-254

il sacrificio notturno

Compiute queste cose, esegue subito gli ordini della Sibilla. C’era una grotta profonda e immensa per la sua vasta apertura, rocciosa, protetta da un nero lago e dalle tenebre dei boschi, sulla quale nessun volatile impunemente poteva dirigere il proprio volo con le ali, tali erano le esalazioni che, effondendosi dalla nera apertura, si levavano alla volta del cielo. [Per questo i Greci chiamarono il luogo col nome di Aorno [57] . Qui per prima cosa la sacerdotessa dispone quattro giovenchi dal dorso nero, versa vino sulla loro fronte e tagliando tra le corna gli ispidi peli più lunghi, li getta sui sacri fuochi, come prima offerta votiva invocando ad alta voce Ecate [58] potente nel cielo e nell’Erebo [59]. Altri immergono i coltelli alla gola delle vittime e raccolgono nelle tazze il tiepido sangue. Lo stesso Enea immola con la spada un’agnella dal nero vello alla madre [60] delle Eumenidi [61] e alla grande sorella [62] e a te, Proserpina [63], una vacca sterile. Poi innalza al re [64] dello Stige notturne are e getta sulle fiamme intere membra [65] di tori versando grasso olio sulle viscere in fiamme.

vv. 255-263

l’entrata nel Tartaro

Quand’ecco ai primi chiarori del sorgere del sole mugghiare la terra sotto i piedi e le cime delle selve cominciare a tremare e le cagne [66] sembrano ululare attraverso l’oscurità all’avvicinarsi della dea [67].

– Lontani, state lontani, o profani, – grida la veggente, – e allontanatevi da tutto il bosco; e tu intraprendi la via e strappa la spada dal fodero: ora, o Enea, ci vuole coraggio, ora ci vuole un animo risoluto.

Detto questo entrò furente nell’antro aperto; ed egli con passo sicuro eguaglia la guida che avanza.

vv. 264-267

invocazione

O dei che avete il dominio sulle anime, ombre silenziose e Caos e Flegetonte, vasti luoghi silenziosi nella notte, concedetemi di raccontare quel che udii e col vostro consenso rivelare le cose sepolte nella terra profonda e nell’oscurità.

vv. 268-281

il vestibolo del Tartaro

i mali dell’uomo

Andavano oscuri nella notte solitaria attraverso le tenebre e le vuote case di Dite e i regni delle ombre vane come è il cammino nelle selve al debole lume dell’incerta luna quando Giove nasconde il cielo nell’ombra e la nera notte toglie il colore alle cose. Proprio davanti al vestibolo [68] e sul primo ingresso dell’Orco, hanno il loro giaciglio il Lutto e gli Affanni vendicatori e vi abitano le pallide Malattie, la triste Vecchiaia, la Paura e la Fame cattiva consigliera, la turpe Miseria, fantasmi terribili a vedersi, la Morte e il Dolore; quindi il Sonno, fratello della Morte, e i malvagi Piaceri dell’animo e sull’opposta soglia la Guerra portatrice di morte, i letti di ferro delle Eumenidi, la pazza Discordia coi capelli di vipere cinti con bende sanguinanti.

vv. 282-294

il vestibolo del Tartaro

(continua)

In mezzo un ombroso immenso olmo stende i rami e le sue vecchie braccia, dimora che, dicono, i Sogni fallaci occupano a frotte e restano attaccati sotto ogni foglia. E inoltre numerose figure mostruose di diverse fiere hanno dimora sulle porte: i Centauri [69] e le Scille biformi [70], Briàreo [71] dalle cento braccia e l’idra di Lerna [72], che stride orribilmente e la Chimera [73] armata di fiamme, le Gorgoni [74] e le Arpie [75] e il fantasma [76] dell’ombra dai tre corpi. Qui Enea, tremante per un improvviso terrore, afferra la spada e presenta la punta aguzza alle ombre che avanzano e se non l’avvisasse l’esperta compagna, che si tratta di vite leggere senza corpo che volteggiano sotto una vuota immagine di forme, si sarebbe precipitato e invano col ferro avrebbe squarciato le ombre.

vv. 295-316

Caronte

similitudini

l’attesa delle anime

Di qui comincia la via che porta alle onde del Tartareo Acheronte, qui un gorgo torbido di fango ribolle in una vasta voragine ed erutta tutta la sua melma nel Cocito. Queste acque e i fiumi custodisce Caronte [77], orrendo nocchiero nella sua terribile asprezza, che porta sul mento una folta e incolta barba bianca, stanno fissi gli occhi fiammeggianti e un sordido mantello gli pende dalle spalle legato con un nodo. Egli stesso spinge la barca con un palo, la governa colle vele e traghetta sulla navicella di cupo colore, ormai vecchio, ma per il dio quella vecchiaia è ancor fresca e verde. Qui, sparsa sulle rive, si precipitava tutta la turba, madri e uomini e corpi privati della vita di magnanimi eroi, fanciulli e nubili fanciulle e giovani posti sui roghi sotto gli occhi dei genitori: come numerose nelle selve cadono le foglie staccandosi al primo freddo dell’autunno, o come numerosi gli uccelli si rifugiano sulla terra venendo dall’alto mare quando la fredda stagione li mette in fuga dai luoghi posti oltre il mare e li sospinge verso terre assolate. Le anime stavano ferme e pregavano di compiere per prime il tragitto e tendevano le mani per il desiderio della riva opposta. Ma l’iracondo aspro nocchiero accoglie ora queste ora quelle e scaccia gli altri, sospinti lontano dalla riva.

vv. 317-336

l’attesa delle anime insepolte

Enea, certamente meravigliato e commosso dal tumulto, esclama:

– Dimmi, o vergine, la folla presso il fiume? E cosa chiedono le anime? Per quale discernimento queste lasciano le rive e quelle solcano coi remi la livida palude?

Così gli rispose brevemente la sacerdotessa carica d’anni:

– Figlio di Anchise, legittimo discendente di dei, vedi i profondi stagni del Cocito e la palude Stigia, queste anime che vedi sono la turba misera e insepolta; quel nocchiero è Caronte; questi, che l’onda trasporta, sono stati sepolti. E non è concesso traghettare le orrende rive e le correnti che risuonano sordamente, prima che le ossa abbiano trovato riposo nei sepolcri. Errano per cento anni e s’aggirano intorno a questi lidi e allora, infine, ammessi rivedono gli stagni bramati.

S’arrestò il figlio di Anchise e fermò i passi, pensando a molte cose e commiserando in cuor suo l’iniqua sorte. Ivi scorge mesti e privi dell’onore della sepoltura Leucaspi [78] ed Oronte [79] capo della flotta di Licia, che Austro sommerse insieme, mentre navigavano da Troia sui mari tempestosi, inghiottendo nell’onde la nave e gli uomini.

vv.336-371

Enea incontra Palinuro

la storia della morte di Palinuro

la richiesta di Palinuro

Ecco si fa avanti Palinuro, il nocchiero che poco prima durante la navigazione libica, mentre osservava le stelle era caduto dalla poppa gettato in mezzo alle onde. Quando lo riconobbe, a stento nella nera ombra, così per primo gli parlò:

– O Palinuro, quale dio ti ha strappato a noi e ti sommerse nel profondo del mare? Orsù, parla. E infatti Apollo, che mai prima ho trovato bugiardo, solo con questo responso ha deluso il mio animo, quando profetizzava che saresti scampato al mare e saresti giunto sulle terre Ausonie. È questa, forse, la fede promessa?

E Palinuro rispose:

– Né il tripode di Apollo ti ingannò, o duce figlio di Anchise, né un dio sommerse me nel mare. Infatti, trascinai con me il timone strappato con molta forza, al quale ero aggrappato, col quale governavo la navigazione e che mi era stato dato da custodire. Giuro sui mari tempestosi di non aver preso nessun grande spavento tanto per me quanto per la tua nave, che, spogliata degli strumenti e privata del nocchiero potesse naufragare allo scatenarsi di così grandi marosi. Il violento Noto per tre notti tempestose mi trascinò sull’acqua per gli immensi mari; appena al sorgere della quarta alba scorsi l’Italia sollevato sulla cima di un’onda, lentamente m’avvicinavo a nuoto alla terra, già in salvo l’avevo raggiunta, se una gente crudele non mi avesse assalito col ferro e ignara non mi avesse giudicato una facile preda gravato com’ero dalla veste bagnata mentre cercavo di afferrare colle mani adunche le aspre sporgenze di una rupe. Ora mi tiene l’onda e mi rivoltano i venti sul lido. Perciò ti prego per lo splendore giocondo del cielo e per le brezze, per il genitore e per le speranze di Iulo che cresce, i invitto, strappami da questi mali; o ricoprimi di terra (e tu lo puoi ben fare) e cerca i porti di Velia, oppure, se c’è qualche modo, se la divina tua madre te ne mostra qualcuna, infatti non credo che ti prepari senza la volontà degli dei a traversare così grandi fiumi e la palude Stigia, porgi la destra a un infelice e conducimi con te sulle onde affinché almeno nella morte io possa riposare in una dimora tranquilla.

vv. 372-383

la Sibilla a Palinuro

Aveva detto queste parole, quando la veggente gli rispose così:

– Da dove ti arriva, o Palinuro, un desiderio così empio? Insepolto tu vedrai le acque Stigie e il crudele fiume delle Eumenidi e raggiungerai la riva senza aver ricevuto l’ordine di Caronte? Smettila di sperare che i decreti degli dei si possano mutare pregando. Ma afferra riconoscente queste parole, conforto della tua dura sorte. Infatti, i popoli vicini, spinti in lungo e largo per le città da prodigi celesti cercheranno di placare le tue ossa e innalzeranno un tumulo e sulla tua tomba condurranno vittime sacre e il luogo avrà in eterno il nome di Palinuro.

Da queste parole vengono rimossi gli affanni e per un poco è scacciato il dolore dal triste cuore: si rallegra Palinuro per il nome dato alla terra.

vv. 384-397

Caronte ad Enea

Quindi proseguono il cammino intrapreso e si avvicinano al fiume. Quando il nocchiero fin dall’onda Stigia li scorse andare per il bosco silenzioso e volgere i passi verso la riva, così per primo li assale con queste parole e li apostrofa ad alta voce:

– Chiunque tu sia che ti dirigi armato al nostro fiume, orsù, di lì dimmi perché vieni e ferma il passo. Questo è il luogo delle Ombre, del Sonno e della soporifera Notte; non è permesso trasportare corpi viventi sulla barca Stigia. Né in verità mi rallegrai d’aver accolto sul lago l’Alcide [80] che andava né Teseo [81] e Piritoo [82], benché fossero stati generati da dei e invitti per la loro forza. Con la violenza Ercole mise in catene il custode del Tartaro [83] e tremante lo trascinò via dal trono stesso del re; questi tentarono di portar via dal talamo la regina di Dite [84].

vv.398-416

la risposta della Sibilla

il passaggio del fiume

Contro queste parole brevemente parlò la veggente Anfrisia [85]:

– Qui non ci sono tali insidie, cessa di adirarti; né le armi portano violenza; l’immane portinaio [86] atterrisca pure le pallide ombre latrando in eterno nel suo antro e la casta Proserpina custodisca pure la casa dello zio paterno [87]. Il Troiano Enea, insigne per la pietà e per le armi, scande da padre tra le ombre del profondo Erebo. Se alcun pensiero di così grande pietà ti muove, riconosci almeno questo ramo.

Allora s’acquietò il cuore gonfio d’ira, né aggiunse altre parole a queste. Ammirando il venerabile dono del fatale ramo d’oro, veduto dopo lungo tempo, gira la cerulea poppa e s’avvicina alla riva. Quindi allontana le altre anime che siedono sui lunghi banchi e sgombra le corsie [88] e nello stesso tempo accoglie nello scafo il pesante Enea. Gemette sotto il peso la navicella di giunchi intrecciati rivestiti di cuoio e piena di fessure ricevette molta acqua. Infine la veggente e l’eroe depose incolumi al di là del fiume sul fango informe e sulla verdazzurra erba palustre.

vv. 417-425

Cerbero

L’enorme Cerbero[89] col suo latrato da tre fauci rintrona questi regni giacendo immane davanti all’antro. La veggente, vedendo ormai i suoi tre colli diventare irti di serpenti gli getta una focaccia soporosa con miele ed erbe affatturate. Quello, spalancando con fame rabbiosa le tre gole l’afferra e sdraiato per terra illanguidisce l’immane dorso e smisurato si stende in tutto l’antro. Enea sorpassa l’entrata essendo il custode sommerso nel sonno, e veloce lascia la riva dell’onda donde non si può tornare.

vv. 426-439

Minosse

Subito si udirono voci e un immenso lamento e sul limitare anime piangenti di infanti, che appena nati alla dolce vita il nero giorno portò via e strappati dal seno materno sprofondò in una morte immatura. Accanto a questi i condannati a morte per un’ingiusta accusa. (Né invero queste dimore vengono assegnate senza sorte e senza giudice. Minosse, inquisitore, scuote l’urna, convoca il concilio dei morti silenziosi e apprende le vite e le colpe). Quindi occupano luoghi vicini le anime dolenti di coloro che si diedero la morte di propria mano e provando tedio per la vita gettarono le anime. Quanto vorrebbero sopportare ora nell’aria pura la povertà e i duri affanni della vita. La legge si oppone e la tenebrosa palude dell’onda odiosa li rinchiude e lo Stige scorrendo nove volte li rinserra.

vv. 440-466

L’incontro con Didone

le parole di Enea: facciamo ciò che il fato comanda

Né lontano di qui vengono indicati i campi del Pianto estesi in ogni direzione: così, con questo nome li chiamano. Qui occulti sentieri celano coloro che un amore crudele consumò con disumano struggimento e intorno li copre una selva di mirti: neanche nella morte sono lasciati in pace dagli affanni. In questi luoghi vede Fedra [90] e Procri [91] e la mesta Erifile [92] che mostra le ferite inferte dal figlio crudele, Evadne [93] e Pasifae [94], con queste come compagna va Laodamia [95] e Ceneo [96], giovinetto un tempo, femmina ora, di nuovo cambiata dalla morte nell’antica forma. Tra queste la Fenicia Didone, ancor fresca di ferita, errava nella vasta selva. Appena l’eroe Troiano le fu vicino e la riconobbe indistinta fra le ombre come chi o vede o crede di aver visto la luna attraverso le nubi al cominciar del mese, si mise a piangere e parlò con dolce amore:

– O infelice Didone, mi era dunque giunta vera la notizia che eri morta e che avevi seguito il tuo fato col ferro? Ahimé, io sono stato la causa della tua morte? Giuro per le stelle e per gli dei celesti e se qualche fede esiste sotto la profonda terra, contro voglia, o regina, mi sono allontanato dal tuo lido. Ma gli ordini degli dei, che ora mi costringono ad andare tra queste ombre, per questi orridi luoghi infernali e per la profonda notte mi spinsero coi loro comandi. Né ho potuto credere di arrecarti un così grande dolore con la mia partenza. Ferma il passo e non sottrarti al nostro sguardo. Chi fuggi? Questa è l’ultima volta che il fato mi concede di parlarti.

vv. 467-476

il silenzio di Didone

Con queste parole Enea cercava di lenire l’animo ardente di Didone che guardava in modo torvo e scoppiava in lacrime. Lei ostile teneva gli occhi fissi al suolo, col volto immobile, mentre parlavo, come la dura selce o la rupe Marpesia[97]. Infine si allontana e nemica si rifugia nella selva ombrosa dove l’antico coniuge Sicheo corrisponde ai suoi affanni ed uguaglia il suo amore. Nondimeno Enea, scosso dall’iniqua sventura di Didone, prosegue per lungo tratto in lacrime e prova dolore per lei che si allontana.

vv. 477-493

i Dardanidi

.

Quindi prosegue il cammino concesso. E già percorrevano gli ultimi campi appartati che abitano gli illustri in guerra [98]. Qui gli si fa incontro Tideo [99], qui Partenopeo [100] famoso nell’uso delle armi e l’immagine del pallido Adrasto [101]; qui, gemette scorgendoli tutti in lunga fila, i Dardani caduti in guerra che molto erano stati pianti sulla terra: Glauco [102], Medonte, Tersiloco, i tre Antenoridi [103], Polibete [104] consacrato a Cerere, Ideo [105] che teneva ancora il cocchio e le armi. Intorno gli stanno frementi le anime a destra e a sinistra. Né basta averlo visto una volta; ma piace loro indugiare a lungo e muovere insieme i passi e conoscere i motivi della sua venuta. Ma i capi Danai e le falangi di Agamennone, quando videro l’eroe e le armi fulgenti tra le ombre trepidarono di profondo timore: parte volta la schiena come quando correvano verso le navi, parte leva un esile grido ma il grido si strozza nella gola.

vv. 494-508

Enea e Deifobo

E qui vede il Priamide Deifobo [106] dilaniato in tutto il corpo e crudelmente mutilato in viso, il viso ed ambe le mani e le tempie private delle orecchie strappate e le narici troncate da una ripugnante ferita. Lo riconobbe a stento tremante di paura mentre cercava di coprirsi le atroci ferite e per primo gli rivolse la parola con voce nota:

– O Deifobo valoroso nelle armi, discendente del nobile sangue di Teucro, chi decise di sottoporti a così crudele supplizio? A chi fu lecito agire così contro di te? A me giunse notizia che tu nell’ultima notte, stanco della grande strage di Pelasgi, eri caduto su un mucchio di confusi cadaveri. Allora, proprio io innalzai un tumulo vuoto sul lido Reteo e per tre volte chiamai a gran voce i tuoi Mani. Il nome e le armi conservano il luogo; te, o amico, non potei rivedere e seppellire nella terra patria allontanandomi.

vv. 509-534

il racconto

di Deifobo

A queste parole rispose il figlio di Priamo:

– Nulla è stato tralasciato da te, o amico; ogni obbligo hai adempiuto verso Deifobo e verso l’ombra del suo cadavere. Ma i miei Fati e la funesta scelleratezza della Spartana [107] mi hanno sommerso in questi mali: lei lasciò questi segni. Ed infatti tu sai come abbiamo trascorso tra false gioie la notte suprema, ed è purtroppo necessario ricordarlo. Quando il fatale cavallo venne d’un salto sull’alta Pergamo [108] e pesante accolse nel suo ventre soldati armati, quella simulando un coro [109] danzante portava in giro donne Frigie celebrando orge; lei stessa in mezzo a loro reggeva una grande fiaccola e chiamava i Greci dall’alto della rocca. Allora l’infelice talamo [110] mi accolse vinto dagli affanni e gravato dal sonno e mi vinse giacendo una dolce quiete, profonda e molto simile alla placida morte. Intanto quella singolare moglie porta via dalla casa tutte le armi e toglie da sotto il mio capo la fida spada; chiama dentro la casa Menelao e apre le porte, sperando, s’intende, che questo fosse un gran dono per il marito e potesse così cancellare il disonore delle antiche colpe. Ma perché mi dilungo? Irrompono nel talamo e s’unisce come consigliere di scelleratezze l’Eolide [111]. O dei, restituite ai Greci tali mali, se chiedo la punizione con mente pia. Ma orsù, dimmi a tua volta quale sorte ti abbia condotto qui ancor vivo. Arrivi forse sospinto dal tuo errare sul mare o per ordine degli dèi? O quale Fato ti incalza a raggiungere le tristi dimore senza sole, questi foschi luoghi?

vv. 535-547

Deifobo

e la Sibilla

Durante questo scambio di parole, l’Aurora sulla rosea quadriga aveva già oltrepassato la metà dell’asse nella sua corsa attraverso i cieli; e forse parlando trascorrerebbero tutto il tempo concesso, ma la sua guida, la Sibilla, lo ammonì e parlò brevemente:

– La notte passa, Enea; e noi trascorriamo le ore piangendo. Questo è il luogo dove la via si divide in due direzioni: la destra che tende verso le mura del grande Dite [112]. Questa è la via che ci porta verso l’Eliso; invece la sinistra tiene vive le pene dei malvagi e conduce all’empio Tartaro.

E Deifobo aggiunse:

– Non essere crudele, grande sacerdotessa; mi allontanerò, completerò nuovamente il numero delle ombre e mi restituirò alle tenebre. Va, o nostra gloria, va: possa tu godere di fati migliori.

Solo questo disse, e parlando voltò i suoi passi.

vv. 548-561

visione di Tisifone

Enea si volta a guardare: e subito sotto una rupe a sinistra vede vaste mura circondate da un triplice baluardo che il Tartareo Flegetonte, fiume dalla rapida corrente, lambisce con fiamme roventi e travolge risuonanti macigni. Di fronte si trova una porta enorme e colonne di solido acciaio, che nessuna forza di uomini né gli stessi dèi abitatori del cielo potrebbero distruggere con la guerra; s’eleva ferrea la torre nell’aria e Tisifone [113] sedendo, avvolta in una veste insanguinata, di notte e di giorno è l’insonne custode del vestibolo. Qui si odono gemiti e risuonano crudeli percosse, poi uno stridore di ferro e catene trascinate. Si fermò Enea ed atterrito ascoltò lo strepito.

– O vergine, svelami: che genere di delitti vi sono puniti? O da quali pene sono oppressi? Quale lamento così grande si leva nell’aria?

vv.562-572

Tisifone

vv.562-627

Sibilla descrive il Tartaro

Allora la veggente così cominciò a parlare:

– Glorioso capo dei Teucri, a nessun’anima pura è lecito soffermarsi sulla soglia scellerata; ma Ecate quando mi prepose ai boschi Averni, ella stessa mi mostrò i castighi degli dèi e mi condusse per tutti i luoghi. Radamanto [114] di Cnosso governa questi regni tanto dolorosi, castiga, ascolta le colpe e costringe a confessare le colpe commesse tra i vivi che qualcuno, lieto dell’inutile frode, rimandò di espiare oltre la morte lontana. Subito dopo la vendicatrice Tisifone armata di un flagello [115] sferza oltraggiando i colpevoli e agitando minacciosa i contorti serpenti con la sinistra chiama la crudele schiera delle sorelle.

vv.573-607

 

gemelli Aloidi

Salmoneo

Tizio

 

Lapiti

Issione

Pirìtoo

– Allora finalmente si aprono le porte maledette stridendo con orribile suono sul cardine. Vedi quale custode siede nel vestibolo? Quale figura è a guardia delle porte? Più crudele di questa l’Idra [116] immane con cinquanta nere bocche spalancate ha qui dentro la sua sede. Poi il Tartaro stesso si apre come un precipizio e si stende sotto l’oscurità per due volte tanto quanto la vista del cielo si estende fino all’etereo Olimpo [117]. Qui l’antica prole della Terra, la gioventù dei Titani abbattuti dal fulmine, si voltola nel basso profondo. Qui vidi anche i gemelli Aloidi [118] dall’immenso corpo che tentarono di rovesciare colle loro mani il grande cielo e di cacciare Giove dai regni superni. Vidi anche Salmoneo [119] che scontava pene crudeli per aver imitato i fulmini di Giove e il tuono dell’Olimpo. Questi, trascinato da quattro cavalli e agitando una fiaccola andava trionfante fra i popoli Greci e per le città in mezzo all’Elide e chiedeva per sé l’onore riservato agli dèi: folle, che simulava i nembi e l’inimitabile fulmine col bronzo e col galoppo dei cavalli dalle unghie di corno. Ma il padre onnipotente tra le dense nubi scagliò un dardo, non come Salmoneo agitava le fiaccole o le fiamme fumose d’una torcia, e in un turbine immenso lo gettò a capofitto. E così pure si poteva vedere Tizio [120] figlio della Terra madre di tutto, che si estende per nove iugeri [121] interi e un immane avvoltoio rodendo col becco adunco il fegato immortale e le viscere feconde di tormenti scava per il suo banchetto ed abita nel profondo petto né viene concessa un po’ di requie alle fibre che sempre ricrescono. E dovrei ricordare anche i Lapiti [122], Issione [123] e Piritoo [124] sui quali è sospesa una nera rupe che sta lì lì per cadere e somiglia ad una che sta per cadere? Splendono auree testate negli alti triclinii festosi e vivande imbandite davanti agli occhi con lusso regale; sta sdraiata la più vecchia delle Furie [125] lì vicino e impedisce di toccare le mense con le mani e si leva agitando una fiaccola e urlando con voce tonante.

vv.608-627

pene e dannati

 

Teseo

Flegias

– Qui si trovano coloro che odiarono i fratelli mentre durava la vita o percossero il padre o ordirono qualche frode a un protetto o coloro che da soli guardarono ammassate ricchezze e non le divisero coi loro parenti (questa è la folla più grande), e quelli che furono uccisi per adulterio o seguirono empie armi o non esitarono a tradire il giuramento fatto ai padroni: rinchiusi qui aspettano la pena. Non chiedere di sapere quale pena o quale tipo di scelleratezza o destino abbia sommerso questi uomini. Alcuni rotolano un sasso immenso e pendono legati ai raggi delle ruote; siede e starà seduto in eterno l’infelice Teseo [126]; e lo sventurato Flegias [127] ammonisce tutti e testimonia ad alta voce nell’oscurità:

– Ammoniti dal mio esempio imparate la giustizia e non disprezzate gli dèi.

– Questo per oro vendette la patria ed impose un potente tiranno, per denaro fissò le leggi e le abrogò; quello penetrò nel talamo della figlia, illecito imeneo [128]; tutti osarono commettere un esecrando delitto e compirono il delitto osato. Se avessi cento lingue e cento bocche e una ferrea [129] voce, non potrei descrivere tutte le forme di delitti ed enumerare tutti i nomi delle pene.

vv. 628-639

i preparativi sulla porta di Dite

Quando la longeva sacerdotessa di Febo ebbe detto tutte queste cose, esclamò:

– Ma adesso, orsù, prendi la via e completa il compito intrapreso. Affrettiamoci: scorgo le mura costruite nelle fucine dei Ciclopi[130] e di fronte le porte ad arco dove le regole ci comandano di deporre questi doni.

Aveva parlato e, avanzando insieme per il buio delle vie percorrono in fretta lo spazio intermedio e si avvicinano alle porte. Enea occupa la soglia e si asperge il corpo di acqua lustrale [131] e affigge il ramo sulla porta opposta. Finalmente, dopo aver fatto questo e offerti i doni alla dea, raggiunsero i luoghi beati e l’ameno verde dei boschi fortunati e le beate sedi.

vv. 640-647

l’Eliso

Orfeo

Qui un cielo più ampio avvolge in una luce purpurea i campi che hanno un sole proprio e proprie stelle. Parte esercitano le membra in palestre erbose, gareggiano nel gioco e lottano sulla fulva arena; parte ritmano danze coi piedi e recitano versi. Anche il sacerdote Tracio [132] con una lunga veste fa risuonare ritmicamente la lira a sette corde, ora toccandole con le dita ora con l’eburneo plettro [133].

vv. 648-659

gli eroi Troiani

il fiume Eridano

Qui l’antica stirpe di Teucro, prole bellissima, magnanimi eroi, nati in anni migliori, Ilo [134], Assaraco [135] e Dardano [136] fondatore di Troia. Ammira le armi in disparte e i vuoti carri degli eroi. A terra stanno piantate le lance e cavalli senza briglia pascolano qua e là per il campo. L’amore che ebbero da vivi per i carri e le armi, la cura nell’allevare splendenti cavalli ora li segue anche sottoterra. Ecco, a destra e a sinistra ne vede altri che banchettano sull’erba e cantano in coro un lieto peana [137] in mezzo a un odoroso bosco di alloro, dal quale scorre abbondante il fiume Eridano [138], arrivando fin sulla terra.

vv. 660-678

Museo

Qui la schiera che subirono ferite combattendo per la patria e i sacerdoti che furono casti finché durò la vita o i pii veggenti che diedero vaticini degni di Febo o coloro che incivilirono la vita coll’invenzione delle arti e quelli che per meriti si imposero all’altrui ricordo: a tutti le tempie sono avvolte con una candida benda. Così parlò la Sibilla a quelli che le si stringevano intorno e sopra tutti a Museo [139] (infatti una folla numerosa lo tiene in mezzo e lo ammira mentre sovrasta tutti colle alte spalle:

– Dite, o anime felici e tu, grande poeta, quale luogo ospita Anchise? Per lui siamo venuti e abbiamo attraversato i fiumi dell’Erebo.

E l’eroe così con poche parole le diede risposta:

– Nessuno ha una dimora certa; abitiamo in selve ombrose e occupiamo i giacigli delle rive e i freschi prati vicino ai ruscelli. Ma voi, se questo desiderio vi spinge nel cuore, superate questa altura e vi indirizzerò su un sentiero già facile.

Disse e si incamminò davanti a noi mostrando dall’alto i campi risplendenti; quindi lasciarono la sommità del colle.

vv. 679-702

incontro tra Anchise ed Enea

Intanto il padre Anchise nel fondo di una valle verdeggiante percorreva con lo sguardo meditando (riflettendo) con attenzione le anime racchiuse e destinate ad uscire alla luce superna e a caso passava in rassegna tutta la schiera dei suoi e gli amati nipoti e i destini e le vicende e i costumi e le imprese di quegli uomini. E quando vide Enea che gli veniva incontro sul prato, lieto tese entrambe le mani e lacrime gli rigarono il volto e queste parole gli uscirono dalla bocca:

– Finalmente sei arrivato e la tua pietà, tanto aspettata dal padre, ha vinto il difficile cammino? Mi è concesso, o figlio, guardare il tuo volto e udire e farti udire la conosciuta voce? Così veramente sentivo nell’animo e credevo che sarebbe avvenuto numerando i giorni né mi ingannò la mia ansia. Io ti accolgo, figlio, dopo che hai attraversato tante terre e tanti mari e sei stato sballottato da tanti pericoli! Quanto ho temuto che ti potesse nuocere il regno della Libia [140].

Ed Enea:

– La tua, o padre, la tua triste immagine apparendomi molto spesso mi ha spinto a venire a queste soglie; le mie navi son ferme sul mare Tirreno. Dammi, da stringere la destra, concedimelo, o padre, e non sottrarti al nostro abbraccio.

Così discorrendo insieme, rigava il viso di largo pianto. Tre volte tentò di circondargli il collo con le braccia; tre volte l’ombra invano abbracciata sfuggì alle sue mani, simile ai venti leggeri, simile ad un sogno alato.

vv. 703-723

la valle del Lete

Enea chiede perché quelle anime desiderano tornare sulla terra

Frattanto vede in una valle appartata un bosco isolato e i fruscianti rami della selva e il fiume Lete [141] che scorre vicino alle dimore. Vi si aggiravano intorno genti e popoli numerosi, come nei prati quando le api durante l’estate serena si posano sui variopinti fiori, sciamano intorno ai candidi gigli e ogni campo risuona per il loro ronzio. Stupisce l’ignaro Enea alla vista improvvisa e ne chiede le cause, quale sia quel fiume lontano e quali uomini abbiano riempito le rive in schiera così numerosa. Allora il padre Anchise:

– Le anime, che altri corpi avranno dal destino, bevono le acque prive di inquietudini del fiume Leteo e lunghi oblii. In verità già da tempo desidero ricordarti queste anime e mostrartele e contare ad uno ad uno questi miei discendenti perché tu possa maggiormente rallegrarti con me d’aver raggiunto l’Italia.

– O padre, si deve proprio credere che alcune anime ritornino di qui al cielo terrestre si rivestano dei corpi pesanti? Quale desiderio così funesto hanno questi miseri?

– Te lo dirò e non ti terrò sospeso nell’ansia, o figlio, –

risponde Anchise e spiega ogni cosa con ordine.

vv. 724-751

l’origine della vita terrena e delle pene infernali

– Innanzitutto uno spirito vivifica dentro il cielo e le terre e le liquide distese e il globo luminoso della luna e l’astro Titanio [142] e un’anima diffusa per tutte le parti del mondo muove la massa terrestre e si mescola al grande corpo. Di qui ha origine la stirpe degli uomini e degli animali e le vite degli uccelli e i mostri che il mare produce sotto la distesa marmorea delle acque. Questi semi [143] hanno un’energia ignea e un’origine celeste finché corpi nocivi non li rendono lenti e non li rendono ottusi gli organi terreni e le membra mortali. Per questo temono e bramano, si dolgono e godono e, chiuse le anime dalle tenebre e nell’oscuro carcere corporeo, non scorgono il cielo. Anzi, quando la vita nell’estremo giorno le ha lasciate, ogni male e tutte le malattie del corpo non si allontanano completamente dalle meschine anime, ma è destino che molti vizi, a lungo induritisi, attecchiscano profondamente in strani modi. Per questo sono gravate dalle pene e pagano le pene di antiche colpe. Alcune sospese sono distese ai venti leggeri, per altre il delitto commesso è lavato sotto un vasto gorgo ed è bruciato dal fuoco; ognuno soffre i suoi Mani; in seguito siamo mandati nel vasto Eliso e pochi occupiamo i lieti campi, finché un lungo giorno, compiuto il grande ciclo del tempo, cancella la macchia contratta e lascia puro lo spirito celeste e il fuoco della luce purificata. Tutte queste anime, quando per mille anni avrà finito di girare la ruota, il dio chiama al fiume Letè in grande schiera, s’intende affinché immemori rivedano le volte celesti e comincino a desiderare di voler tornare di nuovo nei corpi.

vv. 752-853

ROMA

vv.752-776

personaggi e città prima di Romolo –

Alba Longa

Capi – Numitore

Gabii – Nomento

Fidene

Dopo aver detto queste cose, Anchise condusse il figlio insieme alla Sibilla in mezzo a un’adunanza e a una rumorosa folla di anime e raggiunge un’altura donde potesse passare in rassegna tutti coloro che in lungo ordine gli stavano di fronte e riconoscere il volto delle anime che venivano.

– Ecco, ora ti spiegherò [144] con le parole quale gloria raggiungerà in futuro la prole di Dardano, quali discendenti rimarranno della gente italica, anime illustri destinate a portare il nostro nome e ti ammaestrerò sui tuoi destini. Vedi quel giovane [145] che si appoggia a una semplice asta [146], occupa per sorte i luoghi più vicini alla luce, per primo sorgerà all’aria eterea misto di Italo sangue, Silvio, nome Albano, tua postuma prole che nato tardi a te ormai vecchio la sposa Lavinia alleverà nelle selve come re e padre di re da cui la nostra stirpe dominerà Alba Longa. Quello vicino a lui è Proca [147], gloria del popolo Troiano, e Capi [148] e Numitore [149] e Silvio Enea [150] che porterà il tuo stesso nome, parimenti egregio nella pietà e nelle armi se mai avrà ottenuto di regnare su Alba. Che giovani! Guarda che grande forza dimostrano! E portano le tempie ombreggiate di quercia [151] civile. Questi ti costruiranno Nomento [152] e Gabii [153] e la città di Fidene [154], questi altri sui monti le rocche Collatine [155], Pomezia [156], la Fortezza di Inuo [157], Bola [158] e Cora [159]. Questi saranno allora i nomi, mentre ora sono terre senza nome.

vv. 777-787

le origini di ROMA

Ecco che al suo avo si aggiungerà come compagno Romolo [160] figlio di Marte, che una madre Troiana [161] del sangue di Assaraco alleverà. Vedi come si erge il duplice cimiero sul capo e il padre stesso lo fregia dell’onore proprio degli dèi? Ecco, o figlio, sotto i suoi auspici la Roma gloriosa eguaglierà il suo impero alle terre e il suo spirito all’Olimpo. Essa sola circonderà con mura sette colli, fortunata d’una stirpe di eroi; come la madre Berecinzia [162] con la corona turrita è trasportata sul cocchio per le città della Frigia lieta per la sua prole divina, abbracciando cento nipoti, tutti abitatori del cielo, tutti occupanti alti posti elevati.

vv. 788-807

la potenza di ROMA

Ora volgi qua i tuoi occhi, guarda questa gente e i tuoi Romani. Qui Cesare [163] e tutta la discendenza di Iulo che verrà sotto l’ampia volta del cielo; questo è l’uomo. Questo è colui che molto spesso ti senti promettere, Cesare Augusto, figlio del Divo [164], che di nuovo riporterà nel Lazio il secolo d’oro per i campi un tempo dominati da Saturno [165] ed estenderà il suo dominio sui Garamanti [166] e sugli Indi [167], sulle terre che si estendono oltre le vie dell’anno e del sole, fin dove Atlante [168] reggitore del cielo regge sulle spalle la volta celeste cosparsa di stelle ardenti. Già ora per il suo arrivo rabbrividiscono i regni del Caspio [169] e la terra Meotica [170] per i responsi degli dèi e si turbano le trepide foci del Nilo dalle sette ramificazioni. Nemmeno Eracle discendente d’Alceo percorse tanta vastità di terre, sebbene abbia trafitto la cerva [171] dai piedi di bronzo e avesse reso sicuri i boschi d’Erimanto [172] e fatto tremare col suo arco l’Idra di Lerna [173] né Libero [174] che vittorioso guida il carro con redini intrecciate di pampini, spingendo le tigri giù dall’alta vetta del Niso [175]. E ancora dubitiamo di estendere il dominio col valore o la paura ci impedisce di fermarci nella terra Ausonia?

vv. 808-825

i re romani

la Repubblica

Bruto

Decii – Drusi – Torquato – Camillo

E chi è laggiù che porta gli arredi sacri riconoscibile per i rami d’olivo? Conosce i capelli e il mento canuto del re romano [176] che fonderà con le leggi la nuova città, chiamato dalla piccola Curi [177] e da una povera terra a un grande potere. A lui succederà poi Tullo Ostilio [178] che infrangerà la quiete della patria e spingerà alle armi gli uomini tranquilli e le schiere già disavvezze ai trionfi. Lo segue da vicino il troppo presuntuoso Anco [179] che anche ora qui si compiace del favore popolare. Vuoi vedere i re Tarquini [180] e l’anima superba del vendicatore Bruto [181] e i fasci [182] recuperati? Questi per primo riceverà il potere di console e le crudeli scuri e, padre, chiamerà al supplizio [183] i figli in difesa della bella libertà, sventurato, comunque i posteri giudicheranno quei fatti: vincerà l’amor di patria e l’immensa brama di gloria. Guarda inoltre laggiù i Decii [184] e i Drusi [185] e Torquato [186] inesorabile con la scure [187] e Camillo che riportò le insegne.

vv. 826-853

gli uomini illustri della Repubblica

E quelle anime che vedi rifulgere in armi, concordi ora finché saranno oppresse dalle tenebre, che terribili guerre combatteranno fra loro, se attingeranno la luce della vita,, che grandi schiere e stragi susciteranno, il suocero [188] discendendo dai contrafforti alpini e dalla rocca di Monaco [189] e il genero [190] schierato cogli avversi Eoi [191]. O fanciulli, non rendete consuete agli animi così gravi guerre e non rivolgete le vostre forze potenti contro le viscere della patria: e tu [192] per primo, tu che trai la tua origine dall’Olimpo, perdona; getta lontano dalle tue mani le armi, o sangue mio! Quello, debellata Corinto [193], guiderà vittorioso il cocchio verso l’alto Campidoglio, e si distingue dagli altri per aver sconfitto i Greci. Quello [194] abbatterà Argo e Micene città di Agamennone e sconfiggerà lo stesso Eacide [195], discendente d’Achille potente nelle armi, vendicando gli avi di Troia e il profanato tempio di Minerva [196]. Chi potrebbe lasciare sotto silenzio te, o grande Catone [197], o te, o Cosso [198]? (Chi potrebbe lasciare sotto silenzio) la stirpe di Gracco [199] o i due Scipioni [200], due fulmini di guerra, flagello della Libia, e il potente Fabrizio [201] o te, o Serrano [202] che semini nei solchi? Dove mi trascinate già stanco, o Fabii [203]? E tu sei quel Massimo che da solo temporeggiando ci hai restituito lo Stato? Altri foggeranno più elegantemente statue di bronzo che sembrano vive (lo credo davvero) scolpiranno nel marmo volti che sembrano vivi, patrocineranno meglio le cause e descriveranno col compasso le vie del cielo e prediranno il corso degli astri: tu, o Romano, ricordati di governare col tuo imperio i popoli (queste saranno le tue arti) e di dettare le condizioni di pace, risparmiare chi si sottomette e debellare i superbi.

vv. 854-866

Marcello

Queste parole dice il padre Anchise e aggiunge questo ai due che meravigliati lo ascoltano:

– Guarda come Marcello [204] avanza distinguendosi per le ricche spoglie e vittorioso sovrasta tutti gli altri guerrieri. Questi come cavaliere [205] sosterrà lo stato Romano mentre è perturbato da una grave lotta, abbatterà il Cartaginese e il Gallo ribelle e per terzo [206] appenderà nel tempio al padre Quirino [207] le spoglie catturate al nemico.

E qui Enea (e infatti vedeva andare straordinario per bellezza e per le armi splendenti, ma la fronte non lieta e gli occhi nel volto abbassato a terra):

– Chi è, padre, quello che così accompagna l’eroe che cammina? È forse il figlio o qualcuno della grande discendenza dei nipoti? Che strepito di compagni lo circonda! Che nobile aspetto in lui! Ma l’oscura notte gli avvolge il capo con funesta ombra.

vv.867-892

Marcello il Giovane

Allora il padre Anchise, con lacrime che spuntavano dai suoi occhi, cominciò:

– O figlio! Non chiedere di sapere questo immenso lutto dei tuoi. I Fati lo mostreranno appena e non permetteranno che viva di più. Troppo potente, o dèi, vi sarebbe sembrata la stirpe Romana, se questi doni fossero stati duraturi. Che dolorosi pianti di uomini valorosi si innalzeranno dal quel campo Marzio [208] verso la grande città di Marte! E che funerali vedrai, o Tevere [209], quando scorrerai vicino al sepolcro recente! Né alcun fanciullo della gente Iliaca solleverà a tanta speranza gli avi latini né un giorno la terra di Romolo si vanterà tanto di qualche suo figlio. O pietà, o fede antica, o destra invitta in guerra! Nessuno impunemente sarebbe andato armato contro di lui sia che come fante sarebbe andato a piedi contro il nemico sia che pungesse con gli speroni i fianchi d’un destriero schiumante. Ahimé, fanciullo degno di compianto, tu sarai Marcello, anche se in qualche modo potrai spezzare i tuoi destini crudeli. Spargete gigli a piene mani, che io sparga fiori purpurei e possa colmare almeno con questi doni l’anima del nipote e compia quest’inutile onore.

Così qua e là vagano per tutta quella regione nei vasti campi dell’aria e osservano ogni cosa. Dopo che Anchise condusse il figlio in ogni singolo luogo e incendiò il suo animo coll’amore della gloria ventura, ricorda quindi all’eroe le guerre che in seguito dovrà sostenere e lo informa sui popoli di Laurento e sulla città di Latino e in che modo possa sia evitare che sopportare ogni difficoltà.

vv.893-901

l’uscita

Sono due le porte del Sonno [210]; di esse una si dice sia fatta di corno [211], attraverso la quale è dato alle ombre vere un facile passaggio [212]; l’altra è rilucente e fatta di candido avorio, ma gli dèi Mani inviano al cielo attraverso di essa sogni fallaci. Allora Anchise accompagna il figlio insieme alla Sibilla a queste porte e li fa uscire dalla porta d’avorio [213]. Quello percorre la via verso le navi e rivede i compagni. Poi si reca navigando al porto di Gaeta, lungo il lido diritto. Si getta l’ancora dalla prua; stanno immobili sulla spiaggia le navi.

Dante e il VI libro dell’ Eneide-Italiano- Esempio di saggio breve –ultima modifica: 2010-01-07T19:58:00+01:00da flosm5
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