Io mi ricordo- anni ’40-’50 dopoguerra Aquino

 

ATTIVITA’ E MODI DI VIVERE DEL PASSATO

 

Le risorgive

Alle Valli d’Aquino ogni contadino aveva la sua sorgente d’ acqua che usava per l’ orto, naturalmente bisognava scendere ai piedi delle colline dove il fenomeno era abbastanza consueto. Se ti trovavi a pascolare il bestiame da quelle parti, nel pomeriggio, vedevi una persona in mezzo ad un campo di pomodori che con la zappa guidava l’ acqua tra i solchi: essa proveniva da una pozza che in due o tre giorni si era riempita con l’ acqua della sorgente. Alcune di queste erano particolarmente apprezzate per chi voleva dissetarsi, anzi alcuni contadini lasciavano sul posto anche un bicchiere per loro e per i passanti. Quando non si aveva un bicchiere, si potevano usare delle grosse foglie d’ acqua a mo’ di bicchiere o le mani congiunte. Ora queste risorgive sono scomparse a causa dei sopravvenuti trattori che con i loro aratri profondi hanno interrotto le loro vene.

 

I pozzi tra i campi

Se passavi tra i campi nei pomeriggi d’ estate, spesso vedevi dei contadini che prelevavano l’ acqua per innaffiare l’ orto dai pozzi in uno strano modo: c’ era un altissimo palo conficcato nel terreno alla cui sommità era posto, a mo’ di bilancia, un altro lunghissimo palo, in posizione trasversale; il contadino manovrava un’ asta collegata a quest’ ultimo e alla cui estremità si trovava un secchio, mentre nella parte opposta c’ era un contrappeso che serviva ad alleggerire il peso dell’ acqua quando il contadino tirava su.

 

Ciliegie, meloni e cocomeri

Non tutti avevano le ciliegie e quindi la maggior parte dei ragazzi andavano a rubarle, naturalmente quando il padrone faceva la “siesta” pomeridiana. Qualche volta si veniva scoperti ed allora bisognava saltare giù in fretta e scappare tra i campi di grano alto, cercando di non farsi riconoscere, altrimenti il pericolo scampato sarebbe stato sostituito dall’ intervento piuttosto “deciso” del genitore. Questa stessa funzione avveniva, nelle stesse modalità, anche nei confronti dei campi di cetrioli, meloni e cocomeri.


Il mangiare settimanale

Non si comprava la pasta, tranne la domenica. Il lunedì c’ erano i fagioli sale e olio con le cotiche come companatico, c’era anche il pane fresco che poi serviva per il resto della settimana. Il martedi la zuppa con pane duro della precedente settimana ricoperto di rape e fagioli, con sugo di osso di prosciutto. Il mercoledì si faceva la “carramocia“, un piatto oggi scomparso, ma che era molto buono; era fatto con straccetti di pasta di farina, come secondo qualche uovo.Il giovedì avevamo  i “bottapezzenti“, una pasta  e fagioli, con  sugo di salsiccia che fungeva anche da secondo. Il venedì era vigilia e si mangiava pesce o baccalà che allora erano piatti poveri, il primo era una zuppa con pane duro sotto sugo di baccalà, cipolle e patate. Il sabato si poteva ripetere uno dei piatti settimanali o variare con qualche cosa di meglio, quando la natura lo concedeva, e la domenica spesso si comprava  la pasta al negozio  e faceva un sugo di pollo che rappresentava anche un secondo, ma in certi periodi la carne si poteva rivedere anche dopo un mese, comunque  il nutrimento necessario c’era perchè tra cotiche e salsiccia, prodotti in famiglia, un paio di volte alla settimana ci si poteva  nutrire a sufficienza, solo che le cotiche residue del lardo in pezzi e le salsicce, quando era passato un pò di tempo sapevano di rancido; una chicca era rappresentata dalle “cìcole”, i resti dello strutto sciolto come condimento.

 

Il gioco del pallone

In quegli anni il pallone non si conosceva, lo portò da noi Marco Fusco che, avendo studiato in collegio ad Assisi, aveva conosciuto la civiltà. Egli era bravo ed insegnò a tutti noi ragazzi a giocare. Il pallone era un problema, bisognava aspettare le elezioni perchè qualche politico ce lo regalasse, ma poi, passando il tempo, si rovinava e bisognava rattopparlo: era difficile perchè per rigonfiarlo occorreva un’ apposita pompa che noi non avevamo. Allora una  o due squadre si improvvisavano al momento, perchè di figli ce n’ erano, oggi purtrotto vediamo il bel campo in erba quasi abbandonato, perchè non ci sono più i ragazzi.

 

 

 

I “cunti

Erano i racconti dei nostri nonni. Quando ci recavamo da loro nelle sere d’ inverno, li pregavamo di raccontarci qualcuna delle loro favole: essi cominciavano, con la pipa in bocca ed il volto illuminato dal fuoco e le guance quasi trasparenti, con l’ immancabile “c’era una volta” e tutti facevamo silenzio.  L’ atmosfera si presentava ideale,  con una luce fioca generata dalla candela a petrolio che si trovava sotto il camino, perché faceva fumo, uno o due gatti che facevano le fusa sulle ginocchia di qualcuno e le donne più grandi che facevano la calza.

 

Bagno alle Valli d’ Aquino

Noi ragazzi andavamo alla Forma. L’ acqua era fredda, ma era l’ unica possibilità per fare un bagno nuotando. I piccoli andavano con i grandi e così erano protetti ed imparavano anche a nuotare,    naturalmente all’ insaputa dei genitori che erano fermamente contrari per il pericolo e per la mala salute, ma c’ era il dopo pranzo che li invitava ad andare a riposare e quindi tutto poteva avvenire a loro insaputa. Bisogna ricordare che allora l’ acqua della Forma era pulita e alcune donne , quando andavano a fare il bucato, potevano perfino berla.

 

Il “concia callaro

 

Passava per le case e si fermava se c’ era qualche caldaia di rame da riparare, qualche piatto da ricucire o qualche ombrello da aggiustare;  si occupava anche della stagnatura del rame: teglie e la stessa caldaia. Portava con sé  gli attrezzi del mestiere: trapano a mano, ferro per ricucire i piatti e riparare gli ombrelli, stagno per tappare i buchi e rivestire l’ interno dei recipienti da cucina, pinze e martello.

 

I morti

Subito dopo la guerra o durante, era difficile seppellire i morti. Non c’ erano le bare ed ogni familiare doveva costruirne una con del legno proveniente dalle proprie campagne, ma questo le rendeva molto approssimative e per niente stagne. Il trasporto al cimitero di Aquino avveniva a spalla, nei primi tempi, sopra una scala, successivamente sul carretto o carro trainato da animali, sia per mancanza di altri mezzi che per mancanza di strade. Ricordo che un signore morto durante la guerra, era stato seppellito nel campetto davanti la chiesa e noi quando giocavamo a pallone, in segno di rispetto, evitavamo di calpestare quella tomba.

La prima macchina

La prima macchina la portò da noi Nicola Morelli. Essa per la contrada fu un bene comune perché in caso di urgenze serviva a trasportare le persone al centro, ma anche per cose liete come i matrimoni quando accompagnava gli sposi in chiesa. Era  una FIAT topolino che abbiamo visto in funzione fino alla nostra prima giovinezza.

 

Le schegge

Negli anni Cinquanta e sessanta i ragazzi,soprattutto di campagna, durante il periodo estivo, quando i campi  erano arati, andavano a cercare le schegge dissotterrate dagli aratri nel fare la maggese. Per noi ragazzi del dopoguerra era un modo per ricavarne qualche lira,  vendendo ai “ferrivecchi”, per comprare delle caramelle. Si trattava di pezzi di bombe  esplose che di anno in anno venivano alla luce e divenivano sempre più rari. Erano fortunati quelli che tra noi trovavano residui d’ ottone che costavano di più.

“Andare alla selva”

Era un’ espressione per dire che si andava a far legna. Le donne delle nostre parti andavano almeno in due nel bosco, sia per i pericoli, sia per collaborare nell’ allestimento della fascina “torza” e per caricarla sulla testa di ognuna. C’ era il guardaboschi, sempre molto severo, che permetteva di prendere solo legna secca, ma le donne, rischiando, prendevano anche qualche quercetta verde che comunque ardeva e riscaldava bene, anche perché la legna secca era sempre più piccola. D’ inverno capitava tutti i giorni di vedere queste donne con le fascine pesanti sulla testa che alla sera tornavano a casa.

“La spara” (cercina)

Ogni donna di campagna sapeva fare la “spara”.Essa era costituita da un pezzo di stoffa di scarso un metro quadrato che si arrotolava ottenendo un cerchio e si metteva in testa per attutire l’ impatto dei pesanti fardelli che dovevano essere trasportati. Queste donne erano così brave che non avevano bisogno delle mani per sorreggere  i pesi.

Il fieno

Nelle tiepide serate di maggio era la gioia di noi bambini. Le nostre mamme ci portavano con loro e, mentre erano intente a legare in fasci il fieno raccolto nei covoni, noi giocavamo al chiar di luna correndo appresso alle lucciole o giocando a nascondino. Intanto le donne,  che erano in tante, procedevano nel loro lavoro intonando canzoni di cui oggi si è persa la conoscenza. Mentre cantavano, con velocità e destrezza, arrotolavano il fieno per ottenere due legacci alla volta su cui poggiavano il quantitativo di erba da legare in fascina: questo lavoro si faceva in due, l’ una di fronte all’ altra, pressando anche con le ginocchia, per ottenere una forma omogenea e bene stretta.

 

trebbiatura.JPGLa trebbia

La trebbia era una cosa bella per grandi e piccoli: i grandi erano contenti perché finalmente raccoglievano e i piccoli perché finalmente vedevano una meraviglia della tecnica, l’ unica macchina che si poteva osservare in zona una volta all’ anno per noi che non uscivamo mai. Quando arrivava la trebbia noi bambini la seguivamo incantati per tutto il suo percorso: c’ era un trattore  che la trainava fino alla prima aia e lì si piazzava per cominciare il giorno dopo a trebbiare il grano. La trebbiatura richiedeva molte persone che si scambiavano l’ opera, la fatica era tremenda, perché si lavorava nei mesi di luglio ed agosto sotto una polvere spessa  e fastidiosa, sia pure a turni di dieci tomoli, ma era comunque una festa, perché alla fine si mangiava e beveva abbondantemente. Le donne  si occupavano soprattutto del mangiare: dovevano preparare una tavolata di circa trenta persone (venivano invitati anche i parenti come ospiti) cucinando nel migliore dei modi carne d’ oca bianca in tegame di terracotta, enorme, che ancora oggi rimpiangiamo per la bontà di sapore che dava alle pietanze.

 

Il piazzamento della trebbia

Trebbia e trattore arrivavano alla sera precedente per trovarsi pronti al giorno dopo (faceva caldo e bisognava cominciare subito al mattino col fresco della prima alba). Il piazzamento della trebbia era complicato: si usava la binda per alzarla e livellarla perfettamente, altrimenti avrebbe potuto disperdere i semi nella paglia, quindi si mettevano sotto la ruota delle assi di legno e tutte e quattro si blopccavano con delle ganasce a cuneo.   Ora bisognava piazzare il trattore: questo era munito di una puleggia posteriore che si doveva collegare ad un’ altra puleggia posta lateralmente rispetto alla trebbia tramite un “cintone” luno un quindicina di metri, perché doveva anche ammortizzare i momenti di intasatura; il difficile era costituito dall’allineamento che doveva essere perfetto (bastavano pochi millimetri di errore perchè questo si sfilasse) perciò si procedeva con grande sudata, visto il caldo e la difficile manovrabilità di quei primi mezzi, con prove e riprove, al perfetto allineamento e questo scongiurava una perdita di tempo nel giorno successivo.

La maggese

Si faceva nel mese di maggio, perciò si chiamava così. Era un’ aratura profonda per rivoltare bene il terreno e raddoppiare il raccolto. I nostri contadini si alzavano presto la mattina, anche alle due, per lavorare col fresco, soprattutto per risparmiare le mucche, che dovevano affrontare una fatica enorme per solcare la terra dura del periodo in questione. Molto spesso i contadini dovevano unire le loro mucche per tirare l’ aratro in alcuni terreni impossibili, anche con tre paia  di bestie aggiogate.

 

Le mucche da lavoro

Le nostre mucche erano quelle bianche da lavoro (marchigiane), ma davano anche il latte per i loro vitelli e per la famiglia. Ogni contadino  non era tale se non aveva le mucche che allevava personalmente e “domava” al momento opportuno. Una mucca non domata non era adatta al lavoro e quindi non serviva al contadino, ma ciò non accadeva. Una mucca aveva nove mesi di gravidanza, ma difficilmente accadeva  che ritornasse gravida subito dopo il parto, quindi a volte si doveva penare un po’ prima di avere un altro vitello, che poi rappresentava il maggior mezzo di guadagno per l’ agricoltore.

Il maiale

Il maiale era una cosa importante: si comprava il maialino  verso febbraio o marzo, subito dopo l’ uccisione del precedente maiale;  si allevava con molta cura perché doveva dare il mangiare per tutto l’ anno. Maschio o femmina si doveva castrare  verso primavera, altrimenti la carne presentava un sapore immangiabile. Il castratore  era un “professionista” che spesso veniva da lontano ed in un giorno poteva fare una contrada di clienti (ricordo Gaetano e Carminuccio). Al maiale si davano da mangiare gli avazi di casa  (la “broda” costituita da acqua della pasta  con cui erano stati lavati i piatti , quindi grassa e nutriente  che impastava la farina di mais) e ,verso novembre o dicembre, le ghiande. A  gennaio si poteva pensare di ammazzarlo, ma forse andava maglio a febbraio, quando il tempo era più freddo e asciutto.

Le pannocchie

Non tutti avevano il mais, perciò noi bambini andavamo nei campi vicini e raccoglievamo delle pannocchie per cuocerle presso un fuoco acceso in mezzo ai campi e mangiarle. La specialità si aveva indovinando il punto giusto di maturazione, quando il chicco si presentava ancora lattiginoso: era una prelibatezza! Ma non sempre andava bene, spesso  lo scopriva il proprietario del campo e si recava dai nostri genitori a reclamare: i risultati erano vari, c’ era chi le prendeva  e chi  veniva aspramente rimproverato, perché i  grandi consideravano la cosa disonesta.

La sagra del maiale

Era una festa, ma anche un rito: ci alzavamo molto presto, verso le due di notte, perché si doveva preparare l’ acqua bollente per la spellatura; a giorno, l’ acqua doveva entrare in ebollizione, altrimenti si faceva la figura degli incapaci o dei marmocchi. Verso le sette arrivavano i parenti: il capo famiglia non doveva mancare mai , data l’ importanza dell’ evento e le difficoltà che si dovevano incontrare: era una cosa da uomini e qualche volta nella lotta vinceva l’ animale, ma non doveva succedere , sarebbe stato un motivo di derisione da parte della comunità per tutto l’ anno.  Occorrevano almeno quattro uomini  per reggere il maiale e se non si aveva questa disponibilità, allora bisognava spostare la data: ricordo  che si facevano delle apposite riunioni tra parenti per non far coincidere i periodi (il periodo doveva essere almeno di tre giorni, in quanto il primo giorno se ne andava per l’ uccisione, il secondo per le salsicce di fegato , il terzo per le salsicce di carne e lo strutto. Il più coraggioso ( che era quasi sempre lo scannatore, cosa da pochi)  era quello che entrava nella stalla del maiale, detta “rolla”, con uno spezzone di fune a cappio che doveva infilare nella bocca del maiale quando strillava, prendendo la parte superiore al di là dei canini, in modo che non potesse sfilarsi; successivamente  si  tirava fuori l’ animale che, impaurito, strillava a tutta forza, anche cacciando bava dalla bocca e ciò procurava grande paura in noi bambini; una volta fuori della stalla  si legavano i piedi con altri spezzoni di fune a cappio (servivano poi per reggerlo con più sicurezza). A questo punto occorreva l’ effetto sorpresa: gli uomini, ad un cenno d’ intesa, si avventavano sul maiale  e con effetto a sorpresa lo coricavano  su di un’ apposita panca. Veniva tenuto così  dando la possibilità allo scannatore di infilare il coltello nel giusto punto: doveva essere presa la carotide e non il cuore perché altrimenti fuoriusciva poco sangue a detrimento della carne  e a danno  del sostentamento, perché col sangue dovevano farsi i sanguinacci da mangiare  a cena, fritti a fette con peperoni secchi e ventresca, per una quindicina di giorni, dopo una settimana o più di essiccazione. Il momento appariva crudele a noi bambini e, un po’ per il dispiacere, un po’ per la paura degli strilli, spesso, tenuti dietro la finestra, piangevamo; i bambini più grandi avevano l’ occasione di dare prova di coraggio, partecipando e controllando le emozioni, anzi fingendo spavalderia. Il compito di riparare il sangue spettava ad una donna capace e di buona esperienza, perché bisognava avere coraggio, in quanto stava vicino alla bocca spalancata del maiale, e occorreva girare in continuazione mentre usciva, altrimenti coagulava e non sarebbe stato più possibile  ridurlo in sanguinacci, cosa che si faceva  alla sera, riempiendo le budella più grosse del maiale. Immediatamente, appena morto (qualche volta si pensava che fosse morto, ma con un ultimo sussulto si rischiava di vederlo trascinarsi per terra, creando un grosso problema, poiché, non avendo mezzi meccanici, sarebbe stato molto problematico rimetterlo su), si iniziava la spellatura che iniziava  dai piedi e proseguiva su tutto il corpo, usando l’ acqua bollente curata da una o due persone che non partecipavano all’ uccisione. Finita la spellatura , si appendeva il maiale ad un grosso ramo di albero,si lavava accuratamente e si sventrava (questo era un lavoro delicato che solo in pochi sapevano fare ed erano ammirati ed apprezzati, quasi come chirurghi). A questo punto due o tre donne  si allontanavano con l’ intestino, andavano al ruscello dove lo svuotavano e lo ripulivano bene, usando come detergente tanti limoni e niente altro (tra l’ altro  rigiravano e  sfogliavano le budella  per renderle sicuramente pulite). Nel frattempo gli uomini adulti, almeno quattro, prendevano a spalla il maiale e lo appendevano ad un gancio predisposto in garage o comunque in un posto riparato, mai visibile dalla strada, perché giravano i ladri e durante la notte sarebbero ritornati. Il giorno seguente, di mattina presto,  veniva qualche parente più stretto e si staccava la testa che poi serviva per fare le salsicce di fegato, insieme al fegato e ad altri ingredienti, soprattutto spezie. Il terzo giorno si doveva essere in molti perché si doveva “spezzare” il maiale, cioè si doveva ridurre  nei vari pezzi adatti alla conservazione: si ritagliavano i prosciutti che poi si salavano,  anche il lardo si riduceva in grossi pezzi e si salava, si staccavano dalle ossa i pezzi di carne con cui si facevano le bistecche e le salsicce.

Il mangiare : Il pranzo del primo giorno si faceva con sugo in tegame di terracotta e carne di gallo, maccheroni alla zita spezzati a mano, spezzatino di carne fresca  presa dal ventre  del maiale appena ammazzato e peperoni sott’ aceto, il tutto accompagnato da vino abbondante.

Il secondo giorno non era impegnativo perché c’ erano pochi ospiti. Il terzo giorno si preparava un primo con sugo di carne di maiale ed un secondo a base di bistecche della stessa carne.

La farina

Il pane doveva bastare per tutta la settimana, quindi bisognava farne circa otto pagnotte. Si cominciava con l’ andare alla mola (qui si andava a Castelluccio, dov’ era una mola a pietra, azionata dall’ acqua delle Forme), con il grano preparato il giorno prima: doveva essere lavato (questo avveniva dentro la conca di rame portata in dote da ogni donna) e lasciato asciugare. Quindi si caricava il carro e si portava al molino: lì bisognava fare la fila e poi si collaborava col mugnaio affinché tutto procedesse regolarmente, tra l’ altro si doveva riempire il sacco con la farina che usciva lentamente dalle macine. Il sacco per la farina era fatto di tela, tessuto direttamente nella fattoria con le fibre ricavate dalla canapa coltivata  dallo stesso contadino: il sacco per il grano non era adatto perché, essendo a trama larga, avrebbe lasciato uscire la farina.

 

Il pane

Era necessario avere il lievito conservato dalla settimana precedente che essendosi indurito, veniva messo in acqua calda e lasciato 24 ore. Alla sera si “metteva il lievito” in mezzo alla farina, amalgamandolo bene, e si lasciava “crescere” per tutta la notte. Alla mattina la mamma si alzava presto e trasformava la massa di pane in pagnotte che venivano collocate nella “matrella”  (si” metteva in tavola”) e coperte con un panno di lana per favorire la lievitazione. Nel frattempo si accendeva il forno che richiedeva qualche ora per giungere a temperatura (quando le pareti e la base diventavano bianchi, allora si poteva smettere di fare il fuoco), quindi la donna ripuliva il forno ed infornava. Quando le pagnotte  apparivano ben colorite e profumate, allora il pane era cotto e poteva essere tirato fuori e depositato nell’”arca”. Quasi sempre veniva fatta anche la pizza con pomodoro ed origano, nonché qualche focaccia.

L’ “arca”

Era la madia. Nelle case dei contadini ancora se ne conserva qualche esemplare come ricordo dei tempi passati. Essa era fatta di tavole di legno ed aveva le dimensioni di una buona cassapanca con i piedi. Serviva per “ammassare” il pane e per conservarlo durante tutta la settimana (le famiglie erano numerose e quindi anche le pagnotte erano molte). Il pannello superiore si apriva e si appoggiava al muro posteriore, ma era alto per noi bambini che, per farlo, dovevamo salire sopra una sedia.

Il “ricònsolo”

Quando moriva un familiare, in casa non si doveva far da mangiare, allora intervenivano i parenti meno coinvolti dal dolore portando il pranzo da casa. Era un pranzo ricchissimo, perché almeno così  si pensava di poter sopperire alla  grave perdita avvenuta in quella casa, ma anche perché si verificava  una situazione di competizione tra i parenti e chi  si presentava con un pasto meno fastosa faceva una brutta figura. Se i parenti e gli amici  stretti erano parecchi, questo fenomeno poteva protrarsi anche per una settimana. Non bisogna dimenticare  che allora  era veramente desiderato questo trattamento, in quanto per il resto dell’ anno il mangiare era povero.

 


“Gliù  casàmbl”

Era l’ altalena casareccia. Si faceva a carnevale  appendendo una tavoletta  di legno, tipo seggiolino, al ramo di una quercia alta, con una fune lunga. Lo potevano usare solo i grandi perché era pericoloso in quanto permetteva una volata altissima  ad una persona che doveva  stare in piedi reggendosi con le mani alla fune, insomma era come il trapezio dei circhi, ma senza la rete di sicurezza. L’ oscillazione veniva alimentata dallo stesso protagonista che con un esperto movimento delle ginocchia generava la spinta. Stando là sopra non si dovevano avere le vertigini, ma si provava una sensazione indescrivibile.


La nascita di un figlio

Avveniva sempre in casa. C’ erano un paio di donne  esperte nella zona  che potevano intervenire in qualsiasi momento, ma se il parto si presentava difficile, allora si andava a chiamare la levatrice “mammara”; qualche donna particolarmente fatta esperta dalla quantità e dalla facilità con cui partoriva, capitava che partorisse da sola, anche sotto un albero, se d’ estate, mentre lavorava nei campi, e poi andava a casa, dove provvedeva  al bagnetto della creatura (ma questo solo nei casi più disperati.


La visita alla nascita di un figlio

Si portava la gallina. Era una prassi ineludibile da parte di parenti e vicini di casa e serviva ad offrire una nutrizione alla mamma che in un periodo di povertà avrebbe trovato difficoltà ad alimentarsi adeguatamente per l’ allattamento del neonato. Era preferibile la gallina perché dava la possibilità di fare un brodo grasso e nutriente, cosa che allora non era considerata negativa,  perché non esistevano problemi di  linea e venivano  giudicate persone in “forma” quelle che si mostravano piuttosto tondette. Una donna durante la gravidanza poteva vantarsi anche di essere aumentata di peso fino a 30 kg, ciò dimostrava un benessere economico della famiglia.


 

L’ABITAZIONE ­E ­I ­MOBILI­­­­­­­­­­­­­­­­­


L’abitazione,a quei tempi, era molto grande e a volte ci abitavano anche più famiglie. All’interno si dava più importanza alla grandezza della cucina, mentre, le camere, venivano fatte a misura ridotta. La cucina era più grande perché lì si passava più tempo nell’arco della giornata; un altro motivo per cui si faceva la cucina più grande era che il camino serviva per riscaldare tutta la casa . Negli anni `40, il camino era una cosa importantissima perché, oltre a riscaldare le stanze e le persone, serviva per cucinare cibi di vario tipo. I mobili erano umili, chi stava un po’ meglio degli altri poteva usufruire di due”arche”: c’era l’arca per contenere pane, olio, uova e farina, mentre nella parte estrema ci si impastava il pane. L’altra arca era quella in cui si  mettevano i vestiti ed era quasi uguale all’ altra, ma era di forma ridotta. Al posto dei pensilimoderni si usava la “cristagliera” che era come un armadietto dentro cui si mettevano piatti, bicchieri, tazze per il latte eper il caffè. Per quanto riguarda le sedie, ce n’erano veramente poche, al loro posto si usava la panca. Se disedie ce n’erano, queste erano piccole, tipo sgabello.

 

 

 

 

 

 

 

 

Io mi ricordo- anni ’40-’50 dopoguerra Aquinoultima modifica: 2012-11-23T18:55:00+01:00da flosm5
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